La settimana scorsa è stato approvata la riforma cosiddetta “taglio dei parlamentari” che ha ridotto anche gli eletti nelle Circoscrizioni Estere. I rappresentanti degli italiani residenti all’estero passano quindi da 12 a 8 per la Camera e da 6 a 4 per il Senato.
Se questa riforma sia buona o cattiva non è nelle mie capacità dirlo, ma colgo l’occasione per lasciare qualche spunto di riflessione.
Partiamo da un dato statistico: gli italiani residenti all’estero sono più di 5 milioni. In base al (nuovo) numero di deputati e senatori eletti questo significa che ognuno di essi dovrà rappresentare più di 400.000 cittadini presso le Istituzioni, tre volte tanto ogni parlamentare “italiano”.
E non si tratta di persone che vivono nella stessa città o nazione, ma sparsi ovunque tra i continenti, con situazioni e bisogni completamente diversi gli uni dagli altri. Il risultato è che quasi sempre gli eletti provengono dalle comunità più numerose, mentre quelle più piccole – come Vienna – non vengono rappresentante adeguatamente.
Il punto su cui riflettere è come lo Stato italiano – se ritiene che i suoi cittadini all’estero debbano avere gli stessi diritti di quelli in Italia – possa offrire una adeguata rappresentanza in tutto il mondo. Qualcuno dirà che sarebbe proprio il compito del Comites (e del CGIE), ma nei Paesi dove non è presente – come in Austria – viene a mancare un diritto fondamentale che lo Stato dovrebbe secondo me in qualche modo colmare.
Un secondo numero su cui ragionare: si dice che ci siano quasi 2 milioni di italiani residenti all’estero che non hanno mai visto l’Italia. Sono figli (o nipoti) di emigrati, che hanno ottenuto la cittadini grazie allo ius sanguinis. Quale legame, oltre alle tradizioni e ai ricordi, possono avere con l’Italia? Nessuno qui vuole dire che non debbano avere gli stessi diritti, ma forse è necessaria una attenta riflessione sulla concessione della cittadinanza.
La questione di fondo dove voglio arrivare è quali siano i temi che gli eletti nelle Circoscrizioni Estere debbano portare in Parlamento. Ci sono cittadini che vivono da pochi mesi in un Paese e si spostano nell’altro, altri che vivono da decenni all’estero (e magari sarebbero più interessati a votare per il Paese in cui risiedono piuttosto che alle vicende italiane), e altri come dicevo che sono nati addirittura fuori dall’Italia. Come rappresentare in modo adeguato tutte queste persone?
Mentre completavo questo articolo mi sono ricordato di avere già scritto alcuni anni fa su questo blog sullo stesso tema, e le conclusioni mi sembrano ancora valide. E’ necessario da parte della politica una riforma della rappresentanza degli italiani residenti all’estero.
I soli deputati e senatori non sono sufficienti per rappresentare un numero di cittadini così ampio ed eterogeneo. E’ necessario che le forme di rappresentanza di base – come i Comites ed il CGIE – vengano rafforzate e rese visibili, affinché i cittadini abbiano un punto di riferimento e possano sentirsi veramente ancora parte dell’Italia ovunque essi si trovino.
La domanda, secondo me, è cosa porta la cittadinanza italiana risiedendo all’estero? Finché si tratta di una breve permanenza di studio o di lavoro, fino a 5 anni, è giusto non essere dimenticati dallo Stato Italiano ed esservi adeguatamente rappresentati. Gente che risiede in uno stato estero da più di 10 anni, che non conta di rientrare in Italia o addirittura che è nata e cresciuta in un altro paese ha davvero bisogno di una rappresentanza nel parlamento italiano? Cosa fa l’Italia per noi, tranne cercare tutti i modi possibili per spremere un po’ di tasse sui pochi legami rimasti col Paese? In un post precedente si parlava del diritto di voto nel paese ospite e nel paese originario. La questione è complessa.
Ciao Paolo, hai perfettamente ragione. Gli italiani all’estero vanno tenuti stretti perchè apportano denaro nelle casse dello Stato. E mi spiego meglio. Io, dopo 42 anni di lavoro in un Ente pubblico italiano, ho portato ora i miei figli a studiare a Salisburgo. Scelta fino ad ora perfetta! Ricevo la pensione dall’INPS, non posso farla trasferire in Austria, essendo stato dipedente pubblico, i privati invece lo possono fare. 1a DISCRIMINAZIONE! Come sempre fatto, devo fare la dichiarazione dei redditi in Italia, ma DEVO DICHIARARE SOLO LE ENTRATE, non posso più AVERE NESSUNA DETRAZIONE, ne per le spese mediche, ne spese di studio, eccetera. Non posso ne detrarre ne dedurre nessuna spesa. 2a DISCRIMINZIONE. Inoltre, la “residenza fiscale” mi è stata cambiata d’ufficio, senza nessuna comunicazione, dal mio comune di residenza italiano, dove ho lavorato e versato regolarmente i miei contributi, tasse, imposte, eccetera, alla “città dove a sede l’ente erogatore della pesnione!” Cioè l’INPS e la città è Roma. Così verso 600 euro all’anno al comune di Roma, anche se la mia casa e i miei interessi sono sempre nella stessa città, cioè Trento nel Trentino-Alto Adige. 3a DISCRIMINAZIONE! Ma io la chiamerei una vera “porcata” messa in atto dal Ministero delle Finanze, sentito l’INPS e scritto in caratteri piccolissimi, in fondo a una pagina, in modo che nessuno se ne accorga! Allora mi chiedo, CHE CONVENIENZA ABBIAMO ANCORA A RIMANERE ITALIANI??? NON CI FANNO NEANCHE VEDERE LE PARTITE DELLA NAZIONALE DI CALCIO! Quando iniziano, levano il segnale. Che schifezza! Paolo, vedi per cortesia che convenienza abbiamo a chiedere la “cittadinanza” in Austria. Ci stò veramente pensando. Mia moglie e austriaca, i miei due figli hanno ambedue le cittadinanze, manca solo la mia. Ho convenienza abbandonare quella italiana? Fiscalmente ho visto che le aliquote sono alte qui in Austria, che ne dici? Se interessa anche ad altri italiani l’argomento puoi rispondere qui, altrimenti la mia mail è: nereob@teletu.it!
Attendo tuo competente commento, grazie. Ti saluto caramente. Nereo