Capita sempre così. Ogni volta che accompagno un gruppo di turisti al Belvedere, mentre essi si perdono in brodo di giuggiole di fronte al capolavoro di Klimt (“Il Bacio”), io mi sposto qualche sala più in là per immergermi in un’opera diversa, non romantica ma di altrettanto impatto emozionale. E non di Gustav Klimt. Ma di Egon Schiele.
Quest’anno ricorrono i cento anni della scomparsa del discusso artista, esponente dell’Espressionismo austriaco, e seppur tanti appassionati di arte lo hanno riscoperto proprio in questa occasione, di fronte alle sue creazioni si può sostare in tutta calma. Così io faccio abitualmente con “L’abbraccio”.
Ora non mi soffermerò su particolari aspetti biografici del pittore, ma preferisco addentrarmi nei dettagli della rappresentazione, così tremendamente accesa, che non può destare stupore.
È il dinamismo della scena che colpisce immediatamente: i corpi di due amanti, stesi su un letto disfatto, sono aggrappati disperatamente l’uno all’altro. Ora, guardandolo più attentamente, scopriamo che il lenzuolo è spiegazzato, quasi si arrotola su se stesso inglobando la coppia che, appena terminato l’amplesso, si stringe con una tale forza tale da non lasciare trasparire tenerezza né tanto meno dolcezza. Al contrario, Schiele con questo intimo gesto, ci trasmette un senso di angoscia, di ansia. Lei appoggia la mano sul suo collo, mentre lui affonda il volto nei suoi capelli. Lo sguardo della donna è basso, sembra osservare le possenti braccia del suo amato e rifugiarvisi, mentre gli occhi di lui non si palesano. Che stia piangendo?
In questa scena, Egon Schiele riesce magistralmente a delineare la contrazione dei muscoli dell’uomo e la dolce tensione nel corpo di lei, da coinvolgerci a tal punto da renderci compartecipi del destino della coppia. Cosa sarà accaduto ai due amanti, prima del loro incontro? Perché questo disperato aggrapparsi (come se l’altro rappresentasse la “vita”), invece di lasciarsi andare ad una intima felicità? Qui possiamo solo addentrarci nel campo delle ipotesi, immaginando i due seduti su una panchina, che si domandano il perché di questa loro situazione, che li potrebbe portare ad allontanarsi. Parole spezzate dalle lacrime, giustificazioni, improbabili scuse, dichiarazioni di amore reciproco. Eppure, quella sensazione del lasciarsi, pervade l’immagine dell’opera: la parte bassa dei corpi, là dove si genera la vita, è proprio quella più distante fra i due.
Il quadro viene dipinto nel 1917, e mentre la Grande Guerra infuria e abbatte sotto i colpi dei cannoni l’impero austriaco, nella coppia si sta combattendo una battaglia intima e feroce, e che non avrà mai fine.
Il gruppo si avvicina, io mi ridesto dai miei pensieri, ma un ultimo sguardo mi fa rendere conto di un particolare che mi era sfuggito. Quei due tormentati amanti sono così perfettamente incastrabili, ma paradossalmente indomabili l’uno all’altra.
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